martedì 27 maggio 2014

Una Lettera Pastorale Del Cardinale Michele Pellegrino(da facebook papaboys)

Carissimi
1. Nella conclusione del convegno dei Consigli Pastorale, Presbiteriale e dei Vicari zonali, tenuto a S. Ignazio nell'agosto scorso, mi è stato richiesto di proporre a tutta la comunità diocesana, in una lettera pastorale, un programma d'azione che traduca in linee operative il risultato delle consultazioni condotte per vari mesi in numerosi gruppi e già prese in esame nel convegno ora menzionato. Tale richiesta, che mi è stata rinnovata nella riunione del 4 novembre, mi è sembrata pienamente giustificata. Essa corrisponde a un'esigenza cosi formulata in un recente documento di Paolo VI a proposito dell'impegno della Chiesa in campo sociale, ma valida per tutta l'azione pastorale: «Spetta alle comunità cristiane analizzare obiettivamente la situazione del loro paese, chiarirla alla luce delle parole immutabili del Vangelo, attingere principi di riflessione, criteri di giudizio e direttive di azione all'insegnamento sociale della Chiesa... Spetta alle comunità cristiane individuare - con l'assistenza dello Spirito Santo, in comunione con i vescovi responsabili, e in dialogo con gli altri fratelli cristiani e con tutti gli uomini di buona volontà - le scelte e gli impegni che conviene prendere per operare le trasformazioni sociali, politiche e economiche che si palesano urgenti e necessarie in molti casi» (1).
I contributi emersi dal lavoro a cui ho accennato mi sono di aiuto prezioso, in quanto mi consentono di partire da una intesa di base già raggiunta in certa misura. Questa intesa dovrebbe favorire l'impegno comune sul piano operativo.
Una difficoltà e un rischio
2. Sarà bene tuttavia far presente fin da principio una difficoltà e un rischio. Com'era prevedibile nella trattazione di argomenti attuali e talvolta brucianti che si possono vedere sotto angolature diverse, nel corso delle discussioni svolte sui grossi temi: povertà, libertà, fraternità, si sono manifestati pareri diversi, talora opposti. Sarebbe evidentemente impossibile elaborare una sintesi organica di tutti questi pareri e trame delle indicazioni pratiche che rispecchino veramente un pensiero condiviso da tutti o quasi. È chiaro che non si chiede al vescovo di fare un lavoro di contabile, calcolando il numero dei pareri espressi per accettare senz'altro il voto della maggioranza. Giustamente, in questo senso, nel convegno del 4 novembre, è stato deciso di presentare al vescovo non solo la «mozione sintesi» e gli emendamenti approvati a maggioranza, ma tutti gli emendamenti proposti in quanto anche da essi è possibile attingere validi contributi.
Tuttavia rimangono, dicevo, una difficoltà e un rischio. Se il vescovo fa sue delle proposte avanzate da una maggioranza, e non ad unanimità, - come avverrà necessariamente in molti casi - c'è pericolo che appaia ad alcuni come uomo di parte. Il rischio sembra ancora più grave se per caso il vescovo giudica di doversi attenere al parere d'una minoranza. Non mancano poi coloro che rifiutano di riconoscere qualsiasi valore sia alla maggioranza che alla minoranza, squalificando in partenza qualsiasi sforzo teso a interessare la Diocesi al dialogo sui problemi della vita cristiana e della pastorale.
Ma c'è qualcosa di più grave. Come ebbi occasione di rilevare nel convegno dei parroci tenuto a Pianezza il 12 ottobre 1971 (2), è abbastanza diffusa l'opinione che il vescovo sia dominato da un «partito» o da un «gruppo di pressione». Un'idea del genere non è certo fatta per alimentare quella fiducia senza la quale non si vede come il vescovo possa essere effettivamente il «visibile principio e fondamento di unità» nella Chiesa particolare (3).
Se si tiene conto di altri motivi di sfiducia, fin troppo evidenti nei rapporti fra preti e preti, fra preti e laici, fra preti, laici e vescovo, bisogna constatare che è ben difficile attuare nella diocesi quel comportamento e quella pastorale di comunione che sola risponde all'anelito di Cristo e che rende credibile la sua missione di Salvatore (4).
Leggendo queste considerazioni, qualcuno mi accuserà forse di pessimismo. Risponderò con S. Massimo, che cosi si rivolgeva agli ecclesiastici di Torino dopo averli duramente rimproverati: «Ma io, fratelli, non parlo di tutti. Alcuni certamente sono impegnati, ma altri sono negligenti. lo non nomino nessuno; ciascuno interroghi la sua coscienza!» (5).
3. Di fronte a questa realtà che penso di dover constatare obiettivamente, che cosa può fare il vescovo se non rivolgere a tutti un appello alla fiducia, chiedendo che si creda al suo senso di responsabilità e alla sua volontà di mantenere e promuovere la comunione nella verità e nella carità? È proprio necessario dichiarare che il vescovo, mentre ascolta con attenzione e con gratitudine quanti lo aiutano esprimendo suggerimenti, critiche, proposte, ritiene suo dovere conservare la libertà di giudizio e di decisione che è richiesta dalla sua missione di pastore, di ministro di Cristo e di testimone del Vangelo (6)?
Posso sperare che venga raccolto il mio appello, che il popolo di Dio pellegrinante in Torino possa camminare nella pace, nella concordia e nella comunione insieme col pastore mandato da Cristo a servirlo «col cuore, con la voce, con gli scritti» (7)?
D'una cosa, ad ogni modo, sono certo. Che Gesù Salvatore nostro, il quale ha dato la sua vita per raccogliere in unità i figli di Dio dispersi, ascolta la preghiera che Gli ho rivolto poco fa in particolare per la Chiesa torinese: «Signore Gesù, che hai edificato la tua casa sulla roccia, conferma la tua Chiesa in una salda fede, in una incrollabile fiducia... Signore Gesù, che col Padre stabilisci la tua dimora in coloro che ti amano, rendi perfetta la tua Chiesa nell'amore divino» (8).
Preghiamo, preghiamo, fratelli carissimi, perché sempre nella nostra Chiesa regni la pace e la carità!
Lo scopo di questa lettera
4. Alla chiusura dei lavori di S. Ignazio, ho comunicato all'assemblea il risultato delle mie riflessioni, portate avanti per mesi e maturate ulteriormente in quei giorni nell'ascolto delle relazioni e di vari interventi nei gruppi a cui avevo potuto partecipare. Invece non mi era stato possibile, per ragioni di tempo, tener conto della mozione conclusiva (del resto riconosciuta subito come provvisoria e incompleta). Per questo motivo ho preferito che non si pubblicasse il mio intervento, sembrandomi più utile riservare l'espressione più impegnativa del mio pensiero alla lettera pastorale che, come ho detto, mi era stata richiesta, e che mi proponevo di preparare quando gli organismi competenti avessero portato a termine il loro lavoro (ciò che è avvenuto nella giornata del 4 novembre). Comunque, riprendo qui alcuni pensieri espressi in quel discorso completandoli con l'esame della mozione di sintesi approvata il 4 novembre e degli emendamenti presentati in quell'occasione.
5. Richiamandomi alle constatazioni fatte sulle divisioni che travagliano la Chiesa torinese, vorrei riaffermare molto chiaramente il mio proposito di dire solo e tutto ciò che mi suggerisce la mia coscienza di vescovo. Non posso dimenticare il monito di S. Paolo: «Se cercassi di piacere agli uomini, non sarei servo di Cristo» (9). Non m'interessa guadagnare il favore di questa o quella corrente, di destra o di sinistra; nemmeno potrei propormi la linea di un «giusto mezzo», nel senso di cercare un compromesso a qualsiasi costo.
Non m'illudo di poter soddisfare tutti, nemmeno presumo di saper proporre una soluzione sicura di tutti i problemi che sono in giuoco. Ma è mio dovere, tenendo ben presenti i contributi offerti nel corso delle discussioni, dare quelle indicazioni pastorali che ritengo necessarie o utili per la nostra diocesi. E poiché evidentemente la diocesi ha bisogno di camminare insieme, attuando una pastorale comune per ciò che riguarda gli elementi di fondo, debbo chiedere a tutti i diocesani l'adesione volenterosa e operosa al programma che si propone. La chiedo anche a coloro che, avendo presentato idee e proposte, pensassero di aver motivo di lamentarsi per non vederle accolte in questo mio scritto. Ciò può essere avvenuto o per l'impossibilità, a cui accennavo, di far mie idee e proposte fra loro contrastanti, o in quanto ho ritenuto che vari argomenti trattati nel corso dei lavori, o anche nella sintesi conclusiva, non potessero essere affrontati qui, sia perché non strettamente pertinenti al tema sia perché meritano d'essere ripresi più ampiamente nella sede opportuna.
Quando, per iniziativa del Consiglio Pastorale Diocesano, si è cercata una base per formulare un programma impegnativo per tutta la diocesi, si è proposta la scelta di tre valori di fondo: povertà, libertà, fraternità. Evidentemente la scelta poteva essere formulata in altri modi; ma poiché una scelta bisognava farla, e questa ha raccolto il consenso praticamente unanime, mi pare giusto partire di qui. Del resto, si tratta di valori talmente essenziali nella visione cristiana della vita e talmente attuali in rapporto alla realtà sociale in cui viviamo, che vale ben la pena d'impegnare gli sforzi di tutta la diocesi per tradurli fedelmente nella pratica.
Tutto nella fede e nell'amore
6. Un'osservazione preliminare mi sembra necessaria. Qualsiasi valore venga proposto al cristiano dev'essere visto e presentato nella luce della fede e in ordine all'adempimento del precetto primario dell'amore.
La fede ci presenta una visione integrale della vita, nella quale l'esistenza terrena, dono di Dio e valore da riconoscere e promuovere in me e negli altri con generoso impegno individuale e sociale, non è conclusa in se stessa, ma ordinata alla vita eterna. L'amore ha Dio come oggetto, o, meglio, come dialogante assolutamente primario; in Dio e per Dio amerò il mio prossimo, e se non amo il prossimo non amo Dio. Se si dimentica questo, si rischia di presentare dei valori contraffatti o comunque accettabili solo sul piano naturale (anche se in sé degni della massima considerazione), mentre il cristiano è chiamato a illuminarli e perseguirli secondo l'insegnamento della parola di Dio e valendosi dei sussidi offerti dalla grazia.
L'attuazione di questi valori esige una conversione personale e comunitaria per realizzare una Chiesa più autentica, fedele alla parola di Dio e attenta alle esigenze degli uomini in mezzo ai quali vive, che sia segno del primato assoluto di Dio e del suo regno. D'altra parte, è la conversione personale che fa maturare contemporaneamente una crescita, nella stessa linea, della comunità, così da offrire una esplicita testimonianza di Chiesa, comunione di corresponsabili.
Perciò rimane sempre fondamentale il dovere e la necessità dell'evangelizzazione, della preghiera, della liturgia vissuta autenticamente come riconoscimento del primato di Dio e come mezzo principe per attingere alle sorgenti della grazia, senza la quale non è possibile realizzare alcun valore veramente cristiano. Perciò rimane fermo che la diocesi dovrà continuare e approfondire l'impegno di evangelizzazione e di catechesi nei vari settori e per mezzo delle varie iniziative su cui da tempo si vanno concentrando o dovrebbero concentrarsi gli sforzi comuni. Questa esigenza è stata ben presente nello studio condotto sui documenti proposti dal Consiglio Pastorale. Con molta frequenza ritornano, negli interventi dei gruppi, i richiami alla necessità di caratterizzare il lavoro di evangelizzazione con il rispetto dei valori di libertà, povertà e fraternità e con la volontà effettiva di promuoverne l'attuazione.
Nessun timore, quindi, che il programma di cui qui ci occupiamo debba inceppare l'attività pastorale quotidiana. Piuttosto questa dovrà tener conto di questi valori, come di elementi destinati a purificarne e arricchirne la pastorale, a costo di liberarsi da incrostazioni ormai anacronistiche. 
Uno sguardo alla situazione
7. Non mi riferisco a tutti gli aspetti della realtà in cui viviamo, nella quale, accanto ad elementi positivi che sono motivo di riconoscenza al Signore e d'incoraggia- mento a chiunque opera per l'attuazione del regno di Dio, dobbiamo constatare lacune e deviazioni estremamente preoccupanti. Se è impossibile giudicare le coscienze, che Dio solo conosce, quanto ci è dato vedere ogni giorno intorno a noi fa pensare all'interrogativo posto dal Signore. «Ma il Figlio dell'uomo, alla sua venuta, troverà ancora fede sulla terra?» (9bis). Quali segni di fede possiamo ravvisare in moltissimi cristiani - cristiani perché battezzati - che vivono in un ateismo pratico e non di rado, specialmente fra giovani e ragazzi, anche teorico, in moltissime famiglie che prescindono totalmente nell'opera educativa - se ancora si può chiamare tale - dai princìpi cristiani che ignorano, in quanto considerano normale la ricerca del guadagno e del piacere al di fuori di qualsiasi norma morale? Basti questo accenno per renderci conto del compito immane che impegna l'opera dei pastori e di tutti i fedeli che sentono la loro corresponsabilità. Qui intendo limitarmi, come ho fatto a S. Ignazio, a qualche considerazione sulla situazione attuale della nostra diocesi, situazione sociale e in particolare situazione ecclesiale, in rapporto al programma indicato in queste tre parole: povertà, libertà, fraternità.
Riferendomi alla situazione sociale in genere, si può dire che in teoria questi valori sono riconosciuti e ampiamente proclamati. Nella pratica noi sappiamo come essi sono spesso dimenticati e conculcati, sia nei rapporti tra persone sia nelle strutture sociali. Troppe volte le strutture sociali non rispettano l'uomo, non lo riconoscono quale valore primario. Parlo delle « strutture » in se stesse e degli uomini che vi operano facendole servire, nel campo politico e in quello economico, all'egoismo delle persone e dei gruppi.
Questa realtà va tenuta ben presente perché altrimenti, io credo, le nostre considerazioni non si fondano abbastanza su realtà concrete. È facile appellarsi a leggi economiche come se le leggi economiche fossero assolutamente immodificabili dall'intervento dell'uomo, come se l'uomo che può salire sulla luna fosse legato senza rimedio a quelle leggi economiche o dette tali che portano all'oppressione dell'uomo da parte dell'uomo. Il Concilio ammonisce che «l'attività economica è da realizzare secondo le leggi e i metodi propri dell'economia, ma nell'ambito dell'ordine morale, in modo che così risponda al disegno di Dio sull'uomo» (10).
Nella vita della Chiesa, poi, dobbiamo constatare spesso un comportamento che si potrebbe dire caratterizzato dall'anonimato, nel senso che manca un rapporto con le persone. Questo può avverarsi a tutti i livelli. Ci sono le strutture che qualche volta fanno dimenticare le persone; così nella predicazione, nella celebrazione dei sacramenti, nella attività organizzata è giusto che ci domandiamo se la persona ha sempre il primo posto, o se qualche volta non si lavora come certe strutture o certe attività tradizionali ci suggeriscono o ci impongono senza la debita attenzione alle persone.
C'è nella nostra situazione una carenza, più volte rilevata, in relazione al mondo operaio, che pure ha nella nostra società un peso preponderante per il numero e per il senso di solidarietà che lo anima, mentre è in grandissima parte assente dalla Chiesa. Dobbiamo riconoscere che sono troppo scarsi da parte della comunità ecclesiale quei contatti che sarebbero necessari per conoscere a fondo il lavoratore e per aiutarlo a sentirsi Chiesa e vivere nella Chiesa. C'è difficoltà da parte di molti, sacerdoti e anche laici, e per tante cause, a investirsi dei problemi reali dei lavoratori. C'è una certa paura di compromettersi di fronte a rivendicazioni espresse talvolta in forma discutibile, ma spesso pienamente giustificate. Penso a una parola detta da P. Loew, che fece per più anni lo scaricatore nel porto di Marsiglia, negli esercizi tenuti in Vaticano nel 1970: il povero è colui che ascolta tutti, ascolta il suo caporeparto in officina, ascolta il deputato che fa il comizio, ascolta il sindacalista, alla fine deve ancora ascoltare sua moglie quando torna in casa la sera, ascolta il parroco quando va in chiesa, e non è ascoltato da nessuno. Manca troppo spesso l'impegno dell'ascolto.
Quello che ho detto del mondo operaio vale per altri ambienti della nostra società, che si trovano in situazioni di sofferenza non abbastanza conosciute e valutate, mentre sarebbe grave e urgente dovere sociale venire incontro alle esigenze di queste categorie: ammalati anziani, bambini orfani o abbandonati, immigrati, handicappati o disadattati.
Sempre in tema di rilievi negativi, e senza voler indulgere al pessimismo, poiché si tratta di difetti in cui facilmente cadono gli uomini, credo necessario richiamare l'attenzione su altre due carenze. Mi riferisco a un certo efficientismo, da non confondersi con la legittima e doverosa ricerca dell'efficienza, cioè di un risultato concreto del nostro lavoro per il regno di Dio. Questa ricerca dell'efficientismo può facilmente favorire la tendenza a imporsi agli altri, ad agire con un autoritarismo che non rispetta la libertà del fratello e le tappe del lavoro della grazia, che troppo facilmente sostituisce l'azione dell'uomo all'azione di Dio.
Ritengo poi che convenga stare in guardia da una certa nota di individualismo e di egoismo che spesso accompagna il nostro lavoro nella Chiesa, nel modo di agire, nello stile di vita, in una certa volontà di difendere a ogni costo la propria posizione, i propri gusti e i propri privilegi, in una resistenza, forse inconsapevole ma ostinata, a quegli imperativi di fraternità, di perequazione anche economica, che si pongono con un'urgenza indilazionabile.
È appunto questa tendenza individualistica una delle ragioni di quelle divisioni che, come ho già detto, sono serio motivo di preoccupazione per tutta la vita e la pastorale diocesana.
Esigenza di povertà
8. Vengo alle tre esigenze indicate come elementi base della pastorale diocesana. La povertà dev'essere praticata anzitutto a livello individuale. È necessaria una radicale revisione della mentalità ancora largamente dominante, secondo cui ognuno è padrone dei propri averi e ne fa quello che vuole. L'insegnamento della Chiesa, interprete della legge naturale e della parola di Dio,  è chiaro: «Dio ha destinato la terra e tutto quello che essa contiene all'uso di tutti gli uomini e popoli, e pertanto i beni creati debbono secondo un equo criterio essere partecipati a tutti, essendo guida la giustizia e assecondando la carità... Perciò l'uomo, usando di questi beni, deve considerare le cose esteriori che legittimamente possiede, non solo come proprie, ma anche come comuni, nel senso che possano giovare non unicamente a lui ma anche agli altri» (11).

Paolo VI, nella Populorum progressio, cita S. Ambrogio: «Non è del tuo avere che tu fai dono al povero; tu non fai che rendergli ciò che gli appartiene. Poiché quel che è dato in comune per l'uso di tutti, è ciò che tu ti annetti. La terra è data a tutti, e non solamente ai ricchi». E commenta: «È come dire che la proprietà privata non costituisce per alcuno un diritto incondizionato e assoluto. Nessuno è autorizzato a riservare a suo uso esclusivo ciò che supera il suo bisogno, quando gli altri mancano del necessario» (12).
Possiamo dire che questa dottrina sia conosciuta e accettata da quelli che si professano cristiani? Possiamo dire che quanti l'accettano in linea di principio cerchino sinceramente di attuarla nella pratica?
È pertanto doveroso che ognuno di noi s'interroghi sul suo comportamento nell'uso dei beni economici, tenendo presenti le necessità proprie e della famiglia nella vita di tutti i giorni, e nello stesso tempo rendendosi conto delle necessità degli altri.
Ciò che si dice della povertà nel senso usuale della parola, relativamente ai beni economici, vale anche per i beni d'altra natura, che l'uomo non deve considerare egoisticamente come appartenenti al singolo in modo esclusivo: parlo dei beni della cultura e dell'educazione, dei valori d'ordine spirituale e religioso (13).
9. Si tradirebbe il senso del messaggio evangelico in tema di povertà se si riducesse l'impegno del cristiano alla lotta contro la povertà. Senza dubbio, esigenze di giustizia e di amore fraterno, che obbligano il cristiano a lavorare e lottare per la salvezza integrale dell'uomo, impongono di adoperarsi per eliminare la miseria materiale e morale, che impedisce all'uomo di vivere come uomo. Ma rimane l'esigenza di una vita di povertà intesa come riconoscimento e attuazione della gerarchia dei valori, per cui l'uomo si limita nell'uso dei beni economici al necessario, valutato con spirito di sincerità e di libertà. Povertà vuol dire «sapersi accontentare», ricordando che «niente portammo al mondo, né possiamo portare via qualche cosa. Se abbiamo vitto e vestito, sappiamo dunque contentarci» (14).
Povertà vuol dire non riporre la speranza nei beni che, pur necessari alla vita, sono strumento per realizzare valori più alti e più degni dell'uomo; non mirare al benessere come a scopo supremo dell'esistenza, ma riconoscere la nostra vera ricchezza in Cristo e nei fratelli ritrovati in Lui. Nella Chiesa, afferma il nostro S. Massimo, è da intendersi ricco colui che è «ricco in Cristo»; e richiama l'esempio della comunità primitiva in cui non c'erano bisognosi perché tutti erano animati dal più sincero amore per i fratelli (15).
Qualcuno trova che il termine «povertà» usato in questo senso è troppo impegnativo e preferisce parlare di un tenore di vita semplice e modesto, e forse ha ragione: l'importante è intendersi sul significato delle parole. È inutile nascondersi che la pratica della povertà è tutt'altro che facile. Essa va contro istinti che s'annidano nel cuore dell'uomo, quali l'avidità di possedere e di arricchire, la ricerca della comodità e degli agi della vita, la smania di figurare con l'ostentazione della ricchezza e del lusso. Questi istinti vengono continuamente risvegliati e stimolati dal tipo di civiltà in cui viviamo, tutta protesa a creare nuovi bisogni fittizi che permettano di produrre e guadagnare sempre di più. Solo una visione dei valori illuminata dalla fede può ispirare e sostenere lo sforzo che è necessario per andare contro corrente. Infatti la povertà cristiana ha anche un aspetto di rinunzia volontaria, di ascesi come imitazione di Cristo che volle essere povero per arricchirci della sua povertà (16).
L'amore e la pratica della povertà è per la Chiesa condizione essenziale per l'adempimento della sua missione. «Come Cristo ha compiuto la redenzione attraverso la povertà e le persecuzioni, così pure la Chiesa è chiamata a prendere la stessa via per comunicare agli uomini i frutti della salvezza» (17).
Ma se la povertà ha da essere testimonianza veramente cristiana, non può prescindere da quello che è il valore sommo del cristianesimo, la carità. La povertà pertanto dev'essere vissuta nello spirito di solidarietà verso i fratelli, in modo tutto particolare verso i bisognosi, così da realizzare, in quanto possibile, un'uguaglianza nel fatto economico fra quelli che sono uguali come creature e figli di Dio» (18).
La povertà del cristiano è segnata dallo spirito di umiltà sincera, come quella di Maria, che «primeggia fra gli umili e i poveri del Signore, i quali con fiducia attendono e ricevono da Lui la salvezza» (19). La povertà è spogliamento non solo dei beni esteriori ma anche di se stessi nell'umiltà e nell'obbedienza, sull'esempio di Cristo, che « svuotò se stesso... facendosi obbediente fino alla morte, e alla morte di croce» (19bis). La povertà, rifiuta la presunzione e la sicurezza con cui troppo spesso singoli e gruppi si atteggiano nei confronti della comunità e dell'autorità della Chiesa, mentre è per questa costante richiamo al servizio umile e disinteressato. La povertà resiste alla tentazione di ricercare il prestigio o  il successo esteriore da parte di chi è invece chiamato a condividere le umiliazioni di Cristo.
Lo spirito di povertà induce il cristiano a scelte di vita che lo avvicinino ai fratelli più poveri e lo rendano simile a loro, in una solidarietà che è testimonianza evangelica di fratellanza. Vicino ai più poveri il cristiano si sente impegnato a denunciare profeticamente le ingiustizie d'una società che, mentre consente a minoranze privilegiate l'uso e l'abuso del potere ed una grande massa di beni economici e culturali, impedisce a molti dei suoi membri - in certi paesi la grande maggioranza - di realizzare le condizioni indispensabili a un'esistenza degna dell'uomo (20).
Denuncia doverosa
10. È dovere della Chiesa - di tutta la Chiesa e anzitutto di coloro a cui spetta in primo luogo l'ufficio profetico come maestri autentici della fede, i vescovi e i presbiteri, loro immediati collaboratori - denunciare l'abuso del denaro o del potere, così come si denunciano (o si dovrebbero denunciare) tutti i peccati: la bestemmia, l'adulterio, il furto...
Non dico, anzi non lo credo, che la denuncia basterà a eliminare quest'abuso, questo peccato che lede la giustizia e la carità fraterna. Ma Dio non ci chiede di eliminare dal mondo il peccato. Ci chiede di denunciarlo, come l'ha denunciato Cristo, come l'ha denunciato Giovanni Battista, e prima, i profeti dell'Antico Testamento, e poi, nella storia della Chiesa, i santi e i profeti che non sono mai mancati. D'altra parte, sono le stesse voci del magistero che ci invitano a questo. lo temo che le voci profetiche del magistero in questo campo non abbiano nella predicazione e nella pastorale quotidiana la risonanza che dovrebbero avere.
Cito solo alcuni documenti più recenti: la Mater et Magistra e la Pacem in terris di Giovanni XXIII, la Po- pulorum Progressio e l'Octogesima Adveniens di Paolo VI. 'Ma bisognerà tener presente anche l'insegnamento dei vescovi (nella diocesi, nella regione e nella nazione), come pure alcuni documenti importanti dell'episcopato dei vari paesi.
Accanto alla denuncia dell'abuso del denaro e del potere, dobbiamo pure denunciare quel consumismo nel quale si esplica un'altra forma immorale di potere, mascherato ma non meno deleterio, che invece di cercare il vantaggio dell'uomo, proponendogli quello che veramente giova per le sue necessità reali e per il suo sviluppo, cerca unicamente di sfruttarlo a beneficio della produzione e del capitale, attentando alla sua libertà e minando le sue strutture propriamente umane.
Come per tutte le forme del male che alligna nel. l'uomo e nella società, non basterà fermarsi alle manifestazioni esterne vistose. « L'egoismo e il dominio sono, fra gli uomini, tentazioni permanenti. È pertanto necessario un discernimento sempre più avvertito per togliere alla radice le situazioni che sono frutto d'ingiustizia e per instaurare progressivamente una giustizia sempre meno imperfetta» (21).
La denuncia del peccato e delle situazioni di palese ingiustizia dovrà essere confermata dalla testimonianza personale di giustizia e di solidarietà. Occorre cercare insieme le mete che il cristiano si deve proporre e i mezzi che lo debbono sostenere nel cammino per l'attuazione della giustizia. Sarà impegno dei credenti inserirsi concretamente nelle vicende umane con l'attività sociale e politica svolta nelle forme richieste dalla vocazione di ciascuno, «per far evolvere le strutture e adattarle ai veri bisogni presenti» (22).
Conviene aggiungere che, nella doverosa fedeltà alle norme evangeliche, non tutti i cristiani sono chiamati a vivere la povertà a un livello rigorosamente uniforme. C'è chi, scegliendo uno stile di vita singolarmente povero e austero, rende una testimonianza che suona per tutti come richiamo alle esigenze essenziali che s'impongono al seguace di Cristo povero. Non risulta che Gesù portasse un vestito di peli di cammello come Giovanni il Battista, né che mangiasse locuste o miele selvatico (23). Anzi il Salvatore non aveva difficoltà a riconoscere che il Battista e i suoi discepoli conducevano una vita più austera che lui e i propri discepoli (24).
Povertà nelle strutture ecclesiali
11. La povertà dev'essere testimoniata anche nelle strutture della Chiesa. Partiamo da un principio elementare ed evidente che non si tiene presente abbastanza, con la conseguenza o di ricercare, nell'attività pastorale, i beni economici in misura sproporzionata alloro fine, o, all'opposto, di voler prescindere dalle necessità economiche connesse con la pastorale. L'attuazione dell'opera salvifica che Cristo ha affidato alla Chiesa, «quale organismo visibile, attraverso cui diffonde su tutti la verità e la grazia» (25), necessita, nel suo svolgimento concreto, anche di mezzi economici. Esemplificare mi pare superfluo. Non si può prendere come norma un ideale astratto di povertà. La misura delle risorse di cui la Chiesa ha bisogno e il modo di impiegarle devono essere determinati secondo le esigenze del ministero. Certamente, lo spirito di autentica povertà che deve animare la vita d'ogni cristiano deve tanto più caratterizzare il comportamento della Chiesa, a tutti i livelli e in tutte le sue manifestazioni. Come stiamo a questo riguardo? Vi sono sacerdoti, religiosi e religiose, parrocchie e comunità che danno una testimonianza ammirevole di povertà accettata e praticata in silenzio e in letizia. Ma ciò non avviene sempre. Non basta il fatto che si dispone di risorse abbondanti (si tratti di persone o di enti) a legittimare spese superflue o l'accumulo di capitali non necessari. Chiunque, persona o istituzione, ha più di quanto gli occorre deve guardarsi dal mostrare superbia e dal mettere la sua speranza in ricchezze precarie, preoccupandosi invece di fare del bene e di essere generoso con gli altri (26).
Lo spirito di povertà dovrà anche presiedere, insieme con la preoccupazione pastorale, alla scelta dei campi di lavoro più adatti alle persone e alle istituzioni della Chiesa. Se in questa scelta il fii1e di lucro è prevalente, si è fuori strada. Quando si commette questo errore, oltre il rischio di dare al mondo una controtestimonianza, si può mettere seriamente in pericolo la vocazione di chi ha cercato nella comunità il mezzo per vivere il Vangelo nella carità e nell'apostolato e s'accorge (se non s'accorge è peggio) d'essere divenuto soltanto uno strumento per far guadagnare soldi all'istituzione.
Consuetudini di vecchia data, che trovano spiegazione nelle vicende storiche, fanno sì che a determinate prestazioni di ministero corrisponda un compenso in denaro. È evidente che ciò non significa una compravendita di beni spirituali, ma un mezzo per provvedere al sostentamento di chi dedica tutto il suo tempo e le sue forze al ministero sacro e per far fronte alle necessità della Chiesa. La mentalità del nostro tempo, che ritengo in ciò più conforme allo spirito del nostro ministero, propone come una meta a cui tendere lo sganciamento della singola prestazione ministeriale dal compenso in denaro. Quello che in vari ambienti si è già realizzato dovrebbe a poco a poco diventare norma comune. Ma ciò richiede, oltre allo spirito di disinteresse e di fiducia nella provvidenza divina da parte dei sacerdoti, un senso di corresponsabilità da parte dei fedeli e un serio impegno di provvedere alle necessità dei sacerdoti e delle comunità. Fa parte dell'opera pastorale educare i fedeli alla coscienza di questo preciso dovere.
Nella costruzione e nell'arredamento delle chiese e dei locali richiesti dallo svolgimento delle attività pastorali è necessario evitare le spese non richieste dalle esigenze funzionali e da un decoro rettamente inteso, che nulla ha da fare con la ricchezza e lo sfarzo.
In ogni caso, la ricerca dei mezzi economici necessari all'azione pastorale non deve mai indurre a compromessi con qualsiasi forma di potere  - si pensa naturalmente al potere politico e a quello economico, che del resto spesso si implicano a vicenda - che mettano in qualsiasi modo in pericolo la piena libertà della Chiesa e le impediscano di agire secondo lo spirito del Vangelo.
Una scelta preferenziale
12. Riconoscere secondo il Vangelo il valore della povertà vuol dire rispettare e amare i poveri, mettersi dalla parte loro con una scelta preferenziale. Cristo, che è venuto a salvare tutti senza eccezione, ha proclamato beati i poveri e ad essi ha riconosciuto il primato dell'annuncio della salvezza. «Lo Spirito del Signore... mi ha mandato a predicare ai poveri la buona novella» (27). La Chiesa non può fare altra scelta. Questa non è demagogia: è Vangelo. «Il Vangelo», ammonisce Paolo VI, «ci inculca il rispetto privilegiato dei poveri e della loro particolare situazione nella società» (28).
Ho già accennato ai vari modi con cui si manifesta la povertà, alle varie categorie di poveri. Tenendo presente la realtà, spesso dura e cruda, e le scelte prioritarie già fatte a suo tempo nella nostra diocesi, dobbiamo riconoscere che «nel tessuto sociale del nostro tempo esiste la "povertà di classe": si danno, cioè, classi sociali povere, le quali assumono sempre più un atteggiamento di rifiuto, di contrapposizione radicale e di impermeabilità nei confronti della società globale, a mano a mano che, sotto la spinta delle ideologie, maturano in esse la coscienza di classe e la conseguente strutturazione organica di quanti vi appartengono. L'esempio tipico è quello della classe operaia. Ma accanto ad essa si devono porre purtroppo numerose altre categorie di persone che non contano, di cui si dispone senza chiedere il loro parere, i cui membri per il solo fatto di appartenervi non riescono a farsi sentire, a far valere i propri diritti, ma restano automaticamente emarginati, esclusi dal progresso, dalla cultura, dalle responsabilità. Basti pensare, per esempio, alla nuova classe degli ‘immigrati’, la quale spesso in una sola nazione raggruppa diversi milioni di persone, praticamente disattese e prive dei più elementari diritti politici, civili, umani.
Ora, l'esistenza di queste classi povere, il fatto cioè che oggi sociologicamente parlando la povertà sia un 'fenomeno di classi intere, ripropone necessariamente ai cristiani in termini nuovi di ‘scelta di classe’ il dovere evangelico della preferenza per i poveri» (29).
«Alla luce dell'insegnamento evangelico la scelta cristiana di classe deve consistere essenzialmente nella priorità e nella preferenza che i cristiani, per vocazione nativa e in vista del regno di Dio, sono tenuti a dare non solo a parole, ma in modo effettivo ed efficace, alle classi più povere nella loro azione pastorale e sociale, di evangelizzazione e di promozione umana» (30).
Non si tratta di novità. La Chiesa, spesso accusata, e non sempre a torto, d'essersi messa dalla parte dei potenti, ha dato in ogni secolo splendida testimonianza evangelica, con la parola e con l'opera, di solidarietà verso i poveri e gli indifesi. Perché, dichiarava S. Agostino, «siamo servi della Chiesa del Signore e soprattutto delle membra più deboli» (31); perché, proclamava S. Massimo, «è beata quella comunità,... che, mentre pensa alle ricchezze eterne, cerca di allontanare dai fratelli la povertà temporale» (32).
13. Queste considerazioni, rapportate alla realtà d'una diocesi pienamente investita dal processo di industrializzazione, confermano la necessità e il dovere pastorale di impegnarsi a fondo per il mondo del lavoro, in primo luogo per il mondo operaio. È vero che all'interno di questo si verificano situazioni molto diverse: ma rimane il fatto che, mentre vi sono operai che non possono trarre dal lavoro i mezzi per condurre un'esistenza degna dell'uomo, la condizione operaia nel suo insieme soffre di quell'«asservimento» alla propria attività che è denunciato dal Concilio e che «non trova assolutamente giustificazione nelle cosiddette leggi economiche» (33).
Troppo spesso la proprietà «diventa il titolo per comandare e disporre degli uomini che lavorano, in termini molto autoritari e forme generalmente non rispettose della dignità, della libertà e della partecipazione dei lavoratori» (34).
Senza dubbio, questa condizione di predominio ingiusto e di sfruttamento « trascende le classi sociali perché ogni uomo, per il peccato, può opprimere altri, anche in famiglia, all'interno della classe operaia, in ogni ambiente o gruppo sociale, nei quartieri, nelle città, a livello internazionale» (35).
Proprio perché l'ingiustizia domina troppo spesso nei rapporti sociali, la Chiesa, che «cammina insieme all'umanità tutta e sperimenta insieme al mondo la medesima sorte terrena, ed è come il fermento e quasi l'anima della società umana, destinata a rinnovarsi in Cristo» (36), si sente solidale con gli oppressi e gli sfruttati e con quanti operano « per costruire nuovi rapporti di giustizia e di fraternità» (37).
Vale per tutta la Chiesa ciò che scrivevano recentemente i vescovi del Cile: «La Chiesa deve preoccuparsi di tutti: perché la sua missione consiste nell'essere segno e strumento (cioè sacramento) dell'amore universale di Gesù Cristo che chiama tutti gli uomini a superare le frontiere reali di qualsiasi egoismo (di nazione, di razza, di partito, di ideologia) per rendere vera l'unità dell'unico popolo di Dio.
Tuttavia, ciò che abbiamo detto precedentemente non impedisce che, con Gesù Cristo, la Chiesa, con decisione e con tutto il cuore si consacri a servire di preferenza quelli che per Lui sono stati e saranno sempre i prediletti: quelli che soffrono, i poveri, gli abbandonati, coloro che per tanto tempo sono vissuti in situazioni apertamente contrarie alla loro condizione e dignità di figli di Dio» (38).
Mi immagino che a questo punto qualcuno mi rivolgerà il rimprovero che molti rivolgevano a S. Giovanni Crisostomo: «Non la smetti di armare la tua lingua contro i ricchi? Non la smetti di prenderli sempre di mira?». E il vescovo di Costantinopoli rispondeva: «Ma sono forse io che combatto i ricchi? Sono io che mi armo contro di essi? Non è vero, invece, che quanto io dico e faccio è per il loro bene, e che sono loro ad affilare le spade contro se stessi? Non ha forse dimostrato l'esperienza che io, il severo censore, io che non finisco di rimproverare, cercavo il loro vantaggio, e che i veri nemici erano proprio quelli che di ciò facevano colpa a me?» (39).
C'è bisogno di aggiungere che l'impegno della Chiesa verso i poveri, verso tutti i poveri, ha come mira essenziale l' evangelizzazione? Lo scopo della Chiesa non può non essere quello che Cristo ha proclamato il primo obiettivo della Sua missione: portare la buona novella ai poveri. La denuncia delle situazioni di ingiustizia e di oppressione è l'aspetto negativo ma necessario dell'annuncio salvifico, che deve manifestare ai fratelli l'amore del Padre e di Cristo Salvatore.
Impegno verso tutti
14. È chiaro che la scelta di cui si parla non significa esclusione.
«Ovviamente, scegliere le classi povere vuol dire, nello stesso tempo, cessare da quei rapporti privilegiati eventualmente instaurati con i ceti sociali più abbienti» (osservazione che dovrebbe suggerire, a vari livelli, un serio esame di coscienza e provocare una conversione necessaria e urgente!). «Ma ciò non significa affatto rottura o odio nei confronti di questi ultimi. Anzi, se la Chiesa e i cristiani escludessero anche una sola classe dal loro impegno apostolico e sociale, finirebbero necessariamente col fare un discorso demagogico e di parte, populista e partigiano, venendo meno all'universalità dell'annuncio evangelico, che invece è offerto a tutti senza eccezione» (40).
Per questo, il gruppo di studio che, per iniziativa dei vescovi del Piemonte, ha preparato il documento già menzionato sulla evangelizzazione del mondo operaio, ha già in corso una ricerca analoga per l'evangelizzazione degli imprenditori e dirigenti e dei lavoratori agricoli.
La Chiesa è debitrice dell'attività evangelizzatrice e pastorale a tutti, senza eccezione. Non può certo dimenticare i «ceti medi», o comunque si vogliano chiamare, né tutti quei cittadini che, pur non disponendo di una forza ingente dovuta al numero e all'organizzazione, affrontano con dignità e costanza le difficoltà della vita quotidiana, spesso misconosciuti nei loro diritti e nell'apporto che danno al bene di tutta la comunità. Desiderosa di comunicare anche a loro il messaggio di giustizia e di liberazione, la Chiesa li esorta a prendere sempre più coscienza, alla luce del Vangelo, della loro missione e ad attuarla con senso di solidarietà fra loro e con tutta la società.
Del resto, è giusto riconoscere che proprio fra gli imprenditori non mancano coloro che vedono «il fine ultimo e fondamentale» dell'attività produttiva non «nel solo aumento dei beni prodotti né nella sola ricerca del profitto o del predominio economico, bensì nel servizio dell'uomo», e si sforzano di realizzare l'attività economica secondo le leggi e i metodi propri dell' economia ma nell'ambito dell'ordine morale, in modo che così risponda al disegno di Dio sull'uomo» (41).
Tali sforzi debbono essere incoraggiati, tanto più che chi li compie deve lottare contro la mentalità che ha dato origine a quel sistema «che considerava il profitto come motivo essenziale del progresso economico, la concorrenza come legge suprema dell'economia, la proprietà privata dei mezzi di produzione come un diritto assoluto, senza limiti né obblighi sociali corrispondenti», contro quella forma di capitalismo che è «stato la fonte di tante sofferenze, di tante ingiustizie e lotte fratricide, di cui perdurano gli effetti» (42).
La libertà cristiana
15. Anche il discorso sulla libertà va fatto nella luce della fede. È nella parola di Dio, soprattutto nelle lettere di S. Paolo e nel Vangelo di S. Giovanni, che troviamo il vero senso della libertà cristiana, purificato dagli equivoci che spesso l'hanno resa sospetta nella Chiesa, approfondito e potenziato dalla conoscenza di Cristo vero liberatore degli uomini. Il magistero recente della Chiesa, che ha per missione di condurre gli uomini « alla fede, alla libertà e alla pace di Cristo» (43), ci aiuta, anche in questo campo, a intendere ciò che la parola di Dio insegna all'uomo del nostro tempo.
La libertà è un diritto naturale dell'uomo, creato da Dio intelligente e libero, quindi responsabile delle scelte a cui è chiamato per realizzare il suo fine. «lo pongo oggi davanti a te la vita e il bene, la morte e il male» (44).
Caduto schiavo del peccato, l'uomo è stato liberato da Cristo (45), che ci ha riscattati a prezzo del suo sangue e ci chiama alla libertà dei figli di Dio 46. La libertà è il dono con cui Cristo, l'Uomo nuovo, ci libera anzitutto nel cuore dal nostro uomo vecchio e ci fa partecipi della Sua libertà di Risorto, amici e non più servi, figli di Dio Padre, animati dal Suo spirito. Acquistiamo questa libertà nella misura in cui, con Cristo, percorriamo la via della verità e dell'amore fino al sacrificio. La Chiesa, vivendo questo dono, dev'essere nei fatti e nei rapporti fra credenti e con tutti, una esperienza di libertà e deve superare tutto ciò che nella prassi e nelle forme contrasta con la libertà, considerando l'evoluzione storica delle esigenze della persona umana. La libertà vissuta dal cristiano è ordinata all'amore, cioè a dare possibilità a ogni uomo di realizzare liberamente quell'immagine unica che, il Creatore ha impresso di Sé in lui.
La missione della Chiesa continua quella di Gesù, ne assicura la permanente presenza nel mondo. Essa deve presentare agli uomini il segno della sua origine e, al tempo stesso, deve far prendere loro coscienza del Regno che viene, li quale si manifesta anzitutto come il regno della gioia e della riconciliazione per gli infelici e della liberazione per tutti gli uomini dal peccato e dalle sue conseguenze anche sociali.
«Quando vi sono uomini che soffrono del disordine e dell'ingiustizia, noi riconosciamo in essi Cristo sofferente; quando l'amore e la giustizia liberano degli uomini, noi discerniamo i segni della risurrezione. Noi sappiamo che Gesù è la speranza di tutta la famiglia umana e dà un senso all'avvenire del mondo. Noi sappiamo oggi che amare il nostro prossimo è amarlo anche attraverso le complesse relazioni dell'economia e della politica» (47).
È dunque in un autentico servizio all'uomo che i cristiani realizzano la loro vocazione.
Nei rapporti di lavoro
16. Nessun uomo può vantare diritti di «padrone », nel pieno senso della parola, su un altro uomo. Tutti siamo servi di Dio (48), servi, come Paolo, di Cristo Signore (49).
L'uomo che, nei rapporti di lavoro, si chiama comunemente «padrone », non è che un uguale con cui il lavoratore ha stipulato un contratto. Contratto che dovrebbe essere fatto a parità di condizione, anzi, secondo il Concilio, riconoscendo al lavoro umano un «valore superiore agli altri elementi della vita economica» (50).
Nella libertà deve svolgersi l'attività economica, nella quale avviene invece troppo spesso che, «mentre pochi uomini dispongono di un assai ampio potere di decisione, molti mancano quasi totalmente della possibilità di agire di propria iniziativa o sotto la propria responsabilità, spesso permanendo in condizioni di vita e di lavoro indegne di una persona umana» (51).
Mi si consenta di richiamare qui ciò che dicevo ai lavoratori convenuti nel nostro Duomo il 30 Aprile 1966. Ricordavo, citando il Concilio, che nei rapporti di lavoro è fondamentale «il diritto di partecipare liberamente alle attività di tali associazioni (fra i lavoratori) senza incorrere nel rischio di rappresaglie» (52); che, mentre esigenze di umanità e di bene comune concordano con la legge evangelica dell'amore fraterno nel richiedere a tutti lo sforzo costante per comporre pacificamente i conflitti ricorrendo «a un dialogo sincero tra le parti, lo sciopero può tuttavia rimanere anche nelle circostanze odierne un mezzo necessario, benché estremo, per la difesa dei propri diritti e la soddisfazione delle giuste aspirazioni dei lavoratori» (53).
E aggiungevo: «In nessun caso e da nessuna parte è mai ammissibile la violazione della giustizia, la mancanza di rispetto alla dignità dell'uomo, l'odio, la menzogna. È abbastanza chiaro che quando la lotta, nei termini che sono stati indicati, appare come l'unico mezzo a cui il lavoratore può ricorrere per la difesa dei suoi diritti, la solidarietà fra i lavoratori si impone come un dovere. Va rispettata la libertà di ogni lavoratore di comportarsi secondo il giudizio che egli si è fatto con un esame obiettivo della situazione. Nessuno ha il diritto di fare violenza alla libertà del singolo. Ma sarebbe egoismo riprovevole mancare di solidarietà coi propri compagni di lavoro solo allo scopo di evitare noie, nell'attesa di sfruttare i vantaggi derivanti dai sacrifici degli altri».
Sarebbe tuttavia deplorevole che lavoratori e cittadini di qualsiasi categoria agissero, nell'esercizio dei loro diritti, senza tener conto delle imprescindibili esigenze delle altre categorie e di tutta la comunità. Sarebbe un vero abuso se i diritti dei lavoratori venissero strumentalizzati, con danno dei lavoratori stessi, a vantaggio di persone e di gruppi sociali che perseguono di fatto i propri interessi di parte.
La libertà nella Chiesa
17. Se un uomo può « comandare» ad altri uomini, non è perché egli valga di più di loro, ma perché così ha disposto Dio stesso per il bene della comunità. Ciò vale nella società civile (54) e nella Chiesa. In essa «comune è la dignità dei membri per la loro rigenerazione in Cristo, comune la grazia dei figli, comune la vocazione alla perfezione, una sola salvezza, una sola speranza e indivisa carità. Nessuna ineguaglianza quindi in Cristo e nella Chiesa per riguardo alla stirpe o nazione, alla condizione sociale o al sesso, poiché " non c'è né Giudeo, né Gentile, non c'è né schiavo né libero, non c'è né uomo né donna: tutti voi siete' uno' in Cristo Gesù" (Gal. 3,28gr.; cf. Col. 3,11)» (55). D'altra parte, «Cristo Signore, per pascere e sempre più accrescere il popolo di Dio, ha stabilito nella Sua Chiesa vari ministeri che tendono al bene di tutto il Corpo. I ministri infatti, che sono rivestiti di sacra potestà, servono i loro fratelli» (56).
«L'autorità che si esercita nella Chiesa è quella di Cristo... Nessun uomo può esercitarla altrimenti che come rappresentante visibile e designato da Cristo, designazione accompagnata dal potere di obbligare in nome di Cristo i redenti, nelle cose che riguardano la salvezza» (57). Nella Chiesa, l'autorità, necessaria perché voluta da Cristo per il bene di tutto il popolo di Dio, è sempre «vicaria», cioè si esercita in nome dell'Unico Signore Cristo. Deve quindi operare con piena fedeltà alla norma data dalla parola di Dio e in ordine al fine proprio della Chiesa, con spirito di servizio ai fratelli. L'autorità è «diaconìa», cioè «servizio» di fratelli a fratelli, da attuarsi secondo verità, umiltà e carità (58).
Come si addice a uomini liberi, a fratelli in Cristo, membri corresponsabili del popolo di Dio, è doveroso promuovere nella comunità un dialogo sincero, animato dalla carità, che consenta a ognuno di recare il proprio contributo, «con quella libertà e fiducia che si addice a figli di Dio e a fratelli in Cristo» (59), per preparare le decisioni che l'autorità ha il dovere di assumere, nella «coscienza di essere servizio e ministero di verità e di carità» (60).
Il dialogo dev'essere non solo accettato ma cercato, nella Chiesa locale, a tutti i livelli: tra il vescovo e tutta la comunità, tra i sacerdoti, tra sacerdoti e religiosi, tra sacerdoti e laici, tra le comunità e i gruppi.
La libertà dev'essere rispettata nel campo della cultura, anche teologica: «Sia riconosciuta ai fedeli sia ecclesiastici che laici la libertà di ricercare, di pensare; di manifestare con umiltà e coraggio la propria opinione nel campo in cui sono competenti» (61).
Libertà come dovere
18. Il diritto alla libertà fonda il dovere di usare della libertà. Usarne, come ammonisce s. Paolo, evitando di ricadere sotto il dominio del peccato, ma facendosi servi della giustizia (62).
Usarne per rivendicare il diritto di operare secondo il dettame della coscienza senza assoggettarci alle pretese di chi voglia imporci arbitrariamente le sue scelte senza averne l'autorità. Usarne per parlare e operare con sincerità e franchezza vincendo il rispetto umano e andando contro corrente se la coscienza ce ne impone il dovere.
Usarne per vincere le tentazioni di un conformismo pigro e inerte che trova più comodo fare ciò che si è sempre fatto, ciò che non scontenta nessuno, invece di domandarci che cosa esige da me, in questo ambiente e in questo momento, l'adempimento del mio dovere.
La libertà intesa in tal modo non è la falsa libertà promessa da coloro che sono schiavi della corruzione (63) e non ha nulla da fare con il libertinaggio bollato da S. Paolo: «Siete stati chiamati a libertà; solamente che questa libertà non diventi un pretesto per la carne» (64). Sappiamo cosa sta sotto questa parola « carne »: tutto quel complesso d'istinti, di tendenze al male, che si oppone alla legge dello « spirito »: dall'avidità del denaro e del potere alla .lussuria, all'egoismo in tutte le sue forme, egoismo dell'individuo e del gruppo. La libertà cristiana, continua Paolo, si attua quando ci mettiamo gli uni a servizio degli altri per amore. Non è dunque lecito rinunziare alla libertà di operare secondo coscienza, per paura degli altri, per preoccupazioni di carriera, per amore del quieto vivere. La libertà, diritto-dovere primario dell'uomo e del cristiano, dev'essere espressione di responsabilità. La libertà è sempre in ordine a qualche cosa. Non c'è libertà senza una meta. La libertà tende responsabilmente ad attuare l'amore.
Non c'è libertà più vera di quella di cui ci ha dato esempio Cristo nostro Signore. Il Canone II ce lo presenta nel momento in cui l'affermazione della sua libertà raggiunse il punto culminante: «offrendosi liberamente alla sua passione». Lui che aveva detto: « lo do la mia vita per riprenderla di nuovo. Nessuno infatti me la toglie, ma io la do da me stesso, poiché ho il potere di darla e di riprenderla di nuovo. Tale mandato ho ricevuto dal Padre mio» (64bis). Non è libertà cristiana quella che non accetta l'obbedienza alla volontà del Padre; non è libertà cristiana quella che rifiuta il sacrificio, la rinunzia, la lotta contro l'egoismo per aprirsi all'amore. Questo vale per tutti e per ciascuno, in tutti i momenti e in tutti i campi: nella famiglia e nella scuola, nel lavoro e nell'attivi!à economica, nell'esercizio delle funzioni pubbliche, nelle istituzioni e nella vita della Chiesa.
Libertà, comunione e pluralismo
19. Il rispetto della libertà porta con sé il riconoscimento d'un legittimo pluralismo. Capita talvolta che chi rivendica per sé il massimo di indipendenza nei confronti dell'autorità si mostri prepotente nell'imporre agli uguali le sue idee e i suoi metodi. Mi riferisco in particolare al campo della pastorale.
È doveroso ricercare nella Chiesa locale, in piena comunione con tutta la Chiesa e in sincera obbedienza al Papa, successore di Pietro, linee comuni di azione pastorale. È soltanto con lo studio serio condotto insieme e con l'unione degli sforzi che può realizzarsi, nei vari settori, il lavoro richiesto dalla parola di Dio e dall'insegnamento della Chiesa, in attento confronto con le necessità e le possibilità del nostro tempo. A questo riguardo molto resta da fare anche fra noi, a livello di comunità parrocchiale, di zona e di diocesi. Sono troppi coloro che non partecipano allo sforzo comune, preferendo condursi secondo le idee proprie o di piccoli gruppi, sia per chiudersi in un conservatorismo rigido e infecondo, sia per lanciarsi all'avventura guidati da concezioni teologiche arbitrarie, incuranti della comunione col vescovo e con il resto della diocesi. Per alcuni tutte le iniziative comunitarie, anche se studiate lungamente, in dialogo aperto e paziente, sono oggetto di critica sistematica e demolitrice.
Mentre sento il dovere di richiamare tutti al senso di responsabilità e all'impegno di comunione nel lavoro, debbo sottolineare il rispetto della ragionevole libertà ammettendo un pluralismo che tenga conto delle situazioni diverse, delle possibilità degli uomini e degli ambienti. Nessun male - anzi può essere cosa utile e feconda - se ci sono parrocchie e comunità che portano avanti, sempre in piena comunione col vescovo, iniziative e metodi pastorali nuovi, che l'ambiente è in grado di recepire, e per cui ci sono strumenti idonei. Si lavori, si sperimenti, con umiltà e coraggio, guardando con rispetto a chi, con uguale buona volontà, ritiene di dover camminare qualche passo più indietro o per vie alquanto diverse, salve sempre le realtà di fondo a cui tutti debbono sentirsi obbligati.
Libertà nella fraternità
20. Quanto ho detto a proposito di libertà, vale anche a introdurre la riflessione sul terzo elemento del nostro programma, la fraternità. Del resto il passaggio dall'uno all'altro termine è ben chiaro nella parola di S. Paolo che ho già ricordato: «Voi, fratelli, siete stati chiamati a libertà. Purché questa libertà non divenga un pretesto per la carne, ma mediante la carità fatevi servi gli uni degli altri» (65).
La fraternità cristiana, fondata sul Battesimo e sull'Eucaristia, comporta uno spirito vivo e iniziative con- crete per superare le divisioni di ogni genere tra gli uomini in nome di Cristo venuto per riunire i figli di Dio dispersi dal peccato e per vincerne le cause. Esige anzitutto la testimonianza di comprensione, aiuto, rispetto, ascolto tra i membri della Chiesa, pur nella vitale e utile dialettica. Vuol dire inoltre creazione inventiva, in tutte le direzioni, di servizi alla comunione tra le persone umane, la cui crescita va stimolata da un'esperienza di reale condivisione, con riguardo tutto speciale a chi è più oppresso, emarginato, sofferente.
Fraternità tra i sacerdoti
21. La fraternità costituisce un impegno particolare per i vescovi e i sacerdoti. Questi sono chiamati a costituire «col loro vescovo un unico corpo sacerdotale, sebbene destinati a vari uffici... In virtù della comune sacra ordinazione e missione tutti i sacerdoti sono fra loro legati da un'intima fraternità, che deve spontanea- mente e volentieri manifestarsi nel mutuo aiuto, spirituale, e materiale, pastorale e personale, nei convegni e nella comunione di vita, di lavoro e di carità» (66).
Dobbiamo essere i primi a dare questa testimonianza di fraternità incontrandoci fra noi intorno a Cristo, il vero Fratello maggiore, Colui nel quale solo possiamo trovare la sorgente dello spirito autentico di fraternità. Incontrarci per pregare insieme, non solo quando lo esigono o lo suggeriscono circostanze particolari, per esempio nelle concelebrazioni solenni, ma, per quanto è possibile, abitualmente, per la liturgia delle ore, per la meditazione sulla parola di Dio, per l'adorazione eucaristica. Sono convinto che in questi ultimi anni si sono fatti e si fanno dei progetti, da parte, per esempio, di preti della parrocchia che ogni giorno pregano insieme e si ritrovano periodicamente per una preghiera comune più prolungata, di compagni di corsi, di gruppi particolarmente impegnati a coltivare la vita interiore e lo spirito di fraternità. Ma molto si può e si deve ancora fare.
Pregare insieme, lavorare insieme. Non si insisterà mai abbastanza sull'affermazione che il lavoro pastorale non è un lavoro da franchi tiratori; è un lavoro di Chiesa, deve essere attuato come Chiesa, comunitariamente. Il lavoro pastorale d'insieme, tra i preti, nello studio, nell'analisi della situazione, nella programmazione dell'attività, nell'esecuzione, dev'essere preso come un criterio irrinunciabile. Non sarebbe certo lavorare insieme accettare semplicemente una divisione del lavoro in determinati settori, senza che l'uno si interessi di quello che fanno gli altri. Questo non soltanto nell'ambito della parrocchia, ma nell'ambito della zona e della diocesi. Anche qui il cammino dà fare è ancora lungo.
È necessario superare una mentalità individualistica che rende difficile il dialogo e la collaborazione. Ora soprattutto, che le nuove situazioni e lo sviluppo delle idee e dei metodi esigono attitudini e competenze specifiche per i vari settori dell'attività pastorale - pensiamo, per esempio, alle famiglie, ai giovani, ai lavoratori, al turismo e al tempo libero -, è quasi impossibile che un sacerdote possa farvi fronte da solo. Ciò che si è cominciato a fare in alcune zone, affidando questo o quel settore a qualche sacerdote, religioso o laico particolarmente preparato, dovrà attuarsi su scala ben più vasta.
Faccio appello per questo alla buona volontà di tutti, in primo luogo dei sacerdoti.
22. Ma lavorare insieme non basta. Lo spirito di fraternità deve portarci a vivere insieme, a praticare più largamente, tra i sacerdoti, la vita comune.
Le difficoltà sono reali, ma molte volte si potrebbero superare. Nell'assemblea dei vescovi italiani dell'anno scorso abbiamo avuto modo di constatare che gli inconvenienti che si avverano qui si avverano altrove. Si parla moltissimo di vita comune, di comunità, di spirito comunitario, ma in realtà siamo ben lontani da quelle attuazioni che si potrebbero raggiungere senza troppa fatica, sacrificando soltanto un poco i propri gusti. Questo vale nell'ambito stesso della parrocchia, dove bisogna realizzare una vera comunità - parlo ancora dei preti - di preghiera, di lavoro, di borsa.
Anche fra i preti di diverse parrocchie si dovrebbe arrivare a vivere insieme. Non è testimonianza il fatto che singoli sacerdoti in piccole parrocchie vicinissime vivano isolatamente e talvolta affrontando grosse difficoltà pratiche, mentre basterebbe un po' di buona volontà, un po' di sacrificio dei propri gusti, un po' di adattamento ai gusti e alle esigenze degli altri per realizzare una comunità di vita che darebbe una testimonianza che i fedeli hanno diritto di attendere da noi.
Il senso comunitario, alimentato quant'è possibile dalla vita comune e operante nel lavoro pastorale in équipe, è anche un mezzo singolarmente efficace per rompere quell'isolamento del prete che costituisce una delle cause più importanti di frustrazione e di crisi. Il celibato scelto e vissuto per amore di Cristo e dei fratelli trova nello spirito comunitario un sostegno e una forza.

Nella parrocchia e nei gruppi
23. È chiaro che la fraternità deve realizzarsi a un titolo speciale fra i preti, ma sarebbe segno di deplorevole clericalismo limitare solo ai preti l'esigenza di fraternità.
Questa deve unire tutti i credenti in Cristo, e tanto più strettamente quanto più essi sono vicini tra loro per i rapporti della vita quotidiana e per l'appartenenza alla medesima comunità di fede, sia questa la parrocchia o un'altra forma in cui vive e opera concretamente la Chiesa.
Credo opportuno richiamare qui ciò che ho detto più volte: la parrocchia rimane, nel nostro ambiente, una struttura di chiesa, che ha bisogno urgente di essere rinnovata e integrata, ma necessaria e insostituibile. È 'ad essa che fanno capo di solito i « poveri », richiamati da un senso di fede spesso embrionale e bisognoso di essere purificato e rassodato e che forse senza la parrocchia sarebbe destinato a vanificarsi. La parrocchia è per moltissimi l'unica occasione d'incontro per ascoltare la parola di Dio, per pregare insieme, per mettersi a contatto con i fratelli di fede.
Lo spirito di fraternità deve animare la vita della parrocchia, nei preti e nei laici. Se è vero che certuni cercano nella chiesa parrocchiale ( o non parrocchiale) soltanto le statue dei santi e le candele da accendere in loro onore, bisogna far si che trovino una vera comunità di fratelli che faccia loro vedere il volto di quel Cristo che cercano forse inconsciamente e che vuole incontrarli per comunicare loro la verità e la salvezza. La parrocchia è necessaria, ma non basta. Ormai è largamente penetrata la convinzione che i gruppi e le comunità di base, operanti nella parrocchia o fuori, sono strumenti di pastorale richiesti dalla mentalità del nostro tempo, soprattutto dai giovani.
Sarebbe metodo pastoralmente errato e controproducente rifiutarli o semplicemente sopportarli come inconvenienti inevitabili. Essi rispondono, invece, a quell'esigenza di spirito comunitario che non può attuarsi se non in misura molto ridotta nella globalità della struttura parrocchiale, mentre questa viene rinsaldata e animata dai gruppi aperti all'incontro e allo scambio reciproco. Ci sono poi comunità e gruppi che, per loro natura, trascendono i limiti della parrocchia, con la quale tuttavia è bene 'che mantengano i contatti, mentre operano in piena comunione col vescovo e con la Chiesa locale.
I gruppi e le comunità di base non devono far dimenticare l'attualità e il valore delle associazioni propriamente dette che, avendo una struttura più determinata, danno maggiore garanzia di durata e di lavoro comune. Mi diceva Mons. Huyghe, vescovo di Arras, che tutta l'attività missionaria che si va svolgendo in quella diocesi è basata in sostanza sul prete animatore della Azione Cattolica: Azione Cattolica Operaia, Azione Cattolica Indipendente (è quella dei cosiddetti «ceti medi») e Azione Cattolica Ragazzi. Da noi c'è chi crede d'aver fatto dei passi avanti perché si è lasciata cadere l'Azione Cattolica. In una diocesi scristianizzata molto più della nostra, dove in certi centri i praticanti sono il 2%, un vescovo dei più avanzati afferma, in base all'esperienza, che la comunità diocesana fa leva soprattutto sull' Azione Cattolica per far sorgere la Chiesa nel mondo operaio.
24. Lo spirito di fraternità deve dilatarsi fuori dei confini della parrocchia e della piccola comunità. La pastorale della zona, che da tempo abbiamo messo in programma e che si incomincia appena a realizzare lentamente e faticosamente, dev'essere accettata con convinzione, come un'esigenza imposta dalla realtà, e perseguita con gradualità, ma con impegno operoso e costante.
Nell'ambito della diocesi la fraternità è postulata dalla natura della Chiesa locale. Essa non è un puro dato sociologico e giuridico, ma una realtà di fede, poiché la diocesi, «aderendo al suo pastore, e, per mezzo del Vangelo e della SS. Eucaristia, unita nello Spirito Santo, costituisce una Chiesa particolare, nella quale è presente e opera la Chiesa di Cristo, Una, Santa, Cattolica e Apostolica» (67).
Sarebbe fatica sprecata programmare e attuare iniziative pastorali, erigere nuove parrocchie e costruire opere, escogitare metodi aggiornati di lavoro, se non si mettesse in primissimo piano, nella vita diocesana, lo spirito di fede e l'amore fraterno.
Come si vive nella nostra Chiesa la fraternità?
Peccherei contro la verità, la giustizia e la carità se non riconoscessi gli esempi mirabili che la Chiesa torinese offre ogni giorno anche in questo campo da parte di preti, di religiosi e di religiose, di laici d'ogni condizione. Anche la nostra diocesi merita, in molti dei suoi membri, l'elogio che S. Ignazio martire faceva della Chiesa di Smirne: «piena di fede e di carità ».
D'altra parte, come ho detto fin da principio, non possiamo chiudere gli occhi su una dolorosa realtà di contrasti e di divisioni, di sfiducia e di rancori, talora manifesti e ostentati, altre volte latenti, ma non meno corrosivi, che rendono difficile il lavoro pastorale.
Questo disagio, che ha la sua spiegazione di fondo, come le «contese e liti» che S. Giacomo (68) rimproverava alle prime comunità, nelle passioni che operano anche nell'uomo redento, è reso più acuto, nei nostri tempi e nel nostro ambiente, da quei «profondi e rapidi mutamenti», da quella «trasformazione sociale e culturale che ha i suoi riflessi anche nella vita religiosa», e che, «come accade in ogni crisi di crescenza, reca con sé non lievi difficoltà» (69), alle quali non siamo abbastanza preparati. È necessario lo sforzo di ciascuno e di tutti perché la sincera ricerca del vero e del giusto sia condotta nello spirito evangelico di carità, di unità e di pace.
Nella comunità Diocesana
25. La fraternità deve attuarsi, come sempre è avvenuto nella storia della Chiesa fin dai primi tempi, nell'aiuto a coloro che mancano dei necessari mezzi economici. A ciò che ho già detto in proposito parlando della povertà, vorrei aggiungere qui un appello a tutti i diocesani perché sentano la corresponsabilità di venir incontro alle molte gravi necessità delle comunità singole e della Chiesa locale: sacerdoti anziani o invalidi, seminari, parrocchie nuove, opere di apostolato che non si possono attuare senza una adeguata base economica.
Nella Rivista Diocesana del Novembre 1968 concludevo l'appello rivolto in tal senso ai sacerdoti facendo mia la fervida esortazione con cui S. Paolo invitava la comunità di Corinto a venire in aiuto ai fratelli bisognosi: «Fate sì di primeggiare anche in quest'opera di carità. Non dico questo per darvi un ordine ma... per darvi modo di provare quanto sia sincero il vostro amore. Perché voi conoscete la grazia del Signore nostro Gesù Cristo, come per voi si fece povero da ricco che era, per arricchire voi con la sua povertà (2 Cor 8,7-9)» (70).
Nell'aprile 1970 mi rivolgevo a tutta la diocesi, insistendo sulle motivazioni che m'inducevano a chiedere il contributo di tutti i fedeli e sullo spirito che dovrebbe animare tutti a questo impegno. «Si tratta, in sostanza, di prendere coscienza del posto che ogni cristiano occupa nella Chiesa, comunità di credenti investiti ciascuno d'una corresponsabilità in ordine al conseguimento dei fini che Cristo ha proposta alla sua Chiesa.
Si tratta di tradurre in un gesto concreto la coscienza della propria responsabilità.
A quel modo che ogni cristiano è obbligato a dare testimonianza della sua fede con la vita e con la parola, ad aiutare la Chiesa lavorando alla propria santificazione, a pregare per la Chiesa, così deve sentire l'impegno di collaborazione all'attività della Chiesa, mettendo a disposizione, nella misura che gli è possibile, i mezzi economici di cui la Chiesa ha necessità per compiere la sua missione» (71).
Si tenga anche presente che, aderendo alle insistenze che da anni pervengono da varie parti, sono state abolite la maggior parte delle molte «collette» solite a farsi in varie domeniche dell'anno. Ma poiché la diocesi non può e non intende esimersi dal dovere di solidarietà che la lega ai fratelli anche lontani, è dalla contribuzione volontaria che si attende l'apporto per far fronte alle necessità per cui .si chiedeva volta per volta l'aiuto.
Rinnovo ora l'appello, in nome di quella fraternità che deve animare la comunità diocesana.
Nella Chiesa e nel mondo
26. Perché i cristiani portino un contributo efficace a rendere operante lo spirito di fraternità, è necessario aiutare la comunità a prendere coscienza del dovere che le incombe nei vari settori della vita civica, sindacale, politica. È stato rilevato che, dopo certi interventi massicci della gerarchia in campo politico, interventi che bisogna giudicare alla luce del momento storico, è subentrato un disinteresse, un'apatia, un disimpegno che il cristiano non può assolutamente accettare. Tutta la comunità cristiana dev'essere coinvolta nel senso di corresponsabilità sociale; specialmente bisogna aiutare coloro che sono più impegnati nella politica, nel sindacato, nel comitato di quartiere, nell'azienda, ad acquistare una retta concezione dei principi che devono guidarli nel loro comportamento, a formarsi la competenza che permetta loro di affermarsi come cristiani in quel campo. E poiché questa «coscientizzazione» sarebbe illusorio pensare di poterla fare nella massa, bisognerà operare prima di tutto nei piccoli gruppi che saranno chiamati ad essere poi il fermento della massa.
27. Una lettera ricevuta in questi giorni mi richiama il dovere di dilatare il senso di fraternità a tutta la Chiesa e a tutto il mondo. È un nostro sacerdote che mi scrive dall' America Latina. Segue la ricerca che si sta facendo nella nostra diocesi e ne è entusiasta. Ma si meraviglia di non aver trovato cenno, nei documenti che ha letto, a ciò che avviene fuori della nostra diocesi, in particolare là dove in qualche modo la Chiesa torinese è presente nei sacerdoti e nei laici della nostra famiglia diocesana. Tengo conto volentieri di questa osservazione, facendo tuttavia presente che, grazie a Dio, molte cose si fanno in questo campo, anche se non se ne parla in quest'occasione. Sarebbe ingiustizia ignorare il validissimo contributo della nostra diocesi per l'azione missionaria, per l'America Latina, per i lebbrosi. Anche quando improvvise calamità richiedono aiuti urgenti, la risposta dei torinesi è pronta e generosa: pensiamo, per accennare ai fatti più vicini, ai soccorsi inviati all'India, al Biafra, al Pakistan.
Fratelli in Cristo
28. La fraternità cristiana, mentre presuppone dei valori umani di affetto sincero e di operosa solidarietà che si debbono onorare dovunque si trovano, si caratterizza per il richiamo a quella realtà di fede che illumina e ispira tutta la vita del credente in Cristo. Siamo fratelli perché figli dell'unico Padre Celeste, «il quale, per la sua grande misericordia, ci fece rinascere, risuscitando Gesù Cristo da morte, a una vivente speranza» (72); perché riconosciamo in Cristo Signore il «Primogenito fra i molti ,fratelli» (73); perché siamo invitati a sedere all'unica mensa in cui Cristo si dà a noi come pane di vita.
La preghiera (Padre nostro!), soprattutto la Messa, deve esprimere e accrescere l'amore fraterno. È tempo di superare quella concezione grettamente individualistica della « pratica religiosa» per cui un cristiano ritiene di aver compiuto il suo dovere quando «ha assistito» alla Messa domenicale. Nella Messa dobbiamo riconoscerci fratelli, dobbiamo, se è necessario - e quanto è necessario e urgente! - convertirci alla fraternità. Dobbiamo deporre ogni egoismo, ogni risentimento; dobbiamo esaminare noi stessi se non vogliamo mangiare e bere la nostra condanna. Questo avviene, ci ammonisce severamente S. Paolo (74), se nell'incontro eucaristico chi sta bene non si cura di chi sta male.
Certo, nessuno ha diritto di giudicare la coscienza del fratello sostituendosi all'unico giudice, Cristo. Ma guai a chi si vale del potere o del denaro per opprimere il debole, per provocare o mantenere situazioni d'ingiustizia, sperequazioni per cui «troppo spesso, in realtà, i diritti dell'uomo restano ignorati, se non scherniti, ovvero il loro rispetto è puramente formale» (75), per cui «si danno delle situazioni la cui ingiustizia grida verso il cielo» (76).
Non possiamo dimenticare un aspetto importante della fraternità che deve attuarsi nella Chiesa locale: la collaborazione tra la diocesi e gli istituti religiosi. Ma poiché di questo argomento ho trattato ampiamente in una lettera di questi ultimi mesi (77) mi permetto di rimandare allo scritto ora menzionato.
Attuazioni concrete
29. Se sono vere le considerazioni che ho presentato, attingendo alla parola di Dio e al magistero della Chiesa confrontato con la realtà del nostro tempo e del nostro ambiente, se ha un senso e uno scopo il lavoro portato avanti da un buon numero di diocesani per un anno, e del quale mi sono valso largamente, è necessario che cerchiamo di venire a conclusioni pratiche.
So bene che nessuna direttiva concreta e nessun ordine perentorio basterebbe e realizzare nella Chiesa quel- l'impegno pastorale che dev'essere frutto di profonde convinzioni maturate nella fede, di generosa decisione suggerita dall'amore e attuata con l'aiuto della grazia divina. Ma è appunto facendo appello allo spirito di fede e di carità, pregando e esortando a pregare, che propongo un programma di azione.
Tenendo presenti le diverse condizioni e possibilità dei vari ambienti, esorto a interessare nella più larga misura possibile le persone, le organizzazioni, i gruppi ai temi proposti in questa lettera, cosi da favorire una maturazione comune e una impegnativa revisione di vita. Molto potranno fare in proposito gli organismi diocesani, proseguendo nel lavoro già svolto finora.
Le indicazioni qui offerte sulla povertà, libertà, fraternità informino la vita e le scelte, oltre che della diocesi, delle zone, delle parrocchie.. delle istituzioni e associazioni, nonché delle comunità o «gruppi di base» parrocchiali, di quartiere, di ambiente. Riprendendo l'accenno già fatto, converrà aggiungere che tali «gruppi» possono sorgere per libera iniziativa, essere nuclei delle associazioni laicali, essere promossi dalle stesse parrocchie. Tutti debbono preoccuparsi di un'autentica dimensione ecclesiale e accettare il confronto e l'incontro con più ampie comunità (in particolare con la parrocchia, la zona vicariale, il settore pastorale, la diocesi. Siano aiutati a non isolarsi nella società, ma a portarsi dove si svolge la vita degli uomini per rendere servizio o animare cristianamente la realtà, gli ambienti di lavoro, di cultura, di assistenza sociale, i quartieri, ecc.
Per portare l'annunzio cristiano al mondo operaio si dedichi un grande impegno nel costituire «gruppi di evangelizzazione» tra i lavoratori, sia giovani che adulti (oggi sono i più assenti dalla Chiesa): ciò richiede pro. fonde trasformazioni di mentalità, di comportamento e di impostazione pastorale nei sacerdoti e in tutta la comunità cristiana.
Per la celebrazione eucaristica nei gruppi, ci si attenga alle norme pubblicate a suo tempo (78).
30. Si ricordi costantemente che ogni impegno singolo o comunitario in vista dell'azione pastorale va fondato su una profonda convinzione dell'azione salvifica di Cristo, della preghiera e dell'esperienza dei sacramenti, poiché solo lo Spirito Santo è animatore di ogni vero rinnovamento.
La fede nello Spirito Santo che continuamente vivifica la Chiesa, deve renderci attenti a scoprire e verificare le attitudini e i carismi dei singoli e delle comunità, a rispettare e favorire la libertà dei figli di Dio, a promuovere le sperimentazioni che, in comunione con i fratelli e sotto la responsabilità del vescovo, si manifestino utili alla crescita della comunità.
Una disposizione interiore di fede, di umiltà e di carità, favorirà il confronto costante delle persone e delle comunità con la parola di Dio, con le altre componenti della comunità cristiana e umana, con i segni dei tempi, ne:l quotidiano impegno di revisione e di conversione.
Mantenendo intatto il «deposito della fede» e tutte le esigenze della vita cristiana compresa quella di farsi «tutto a tutti», nello sforzo di adattamento alle varie situazioni delle persone e dei gruppi, si abbia sempre di mira l'essenzialità del messaggio cristiano e la chiarezza della sua proposta, anche per la gente più povera e semplice: nei «segni» che si adottano, nel linguaggio, nelle proposte di vita e nelle esperienze, cosi come nelle opere promosse e sostenute oggi dalla Chiesa torinese.
31. Si indicano qui alcuni «luoghi» e momenti in cui sembra particolarmente utile promuovere la riflessione su questa lettera.
- Lavoro dei gruppi che hanno già dato il loro apporto alla riflessione sul documento proposto dal Consiglio Pastorale;
- Lavoro dei gruppi parrocchiali e diocesani (Consigli Pastorali Parrocchiali, Consigli Zonali, ecc.): tutti i gruppi siano in collegamento con gli organi diocesani;
- Assemblee e riunioni varie del clero;
- Consigli dei Religiosi e delle Religiose.
Anche i fedeli che non fanno parte di associazioni o di gruppi possono, o singolarmente, o insieme con altri, recare un contributo alla riflessione comune.
Le omelie domenicali offriranno frequenti occasioni di toccare i temi della povertà, libertà e fraternità, non già sostituendo arbitrariamente una predicazione «sistematica» alla riflessione sui testi biblici, ma sempre attingendo alla parola di Dio proposta dalla liturgia. Sarà opportuno trattarne anche nella preparazione comunitaria all'omelia, come pure in incontri successivi.
Catechesi e famiglia
32. Nell'impossibilità di diffondermi sui vari canali ai quali sono affidate la diffusione, l'approfondimento e l'attuazione delle idee e del programma qui indicato, richiamo l'attenzione su due strumenti che sono certo tra i più importanti ed efficaci: la catechesi e la pastorale familiare.
È altamente lodevole l'impegno catechistico in atto quasi dappertutto nella diocesi. Esso è testimonianza concreta di amore a Cristo, di fraternità e di servizio nella Chiesa. Si ponga ogni cura perché la catechesi non si limiti a trasmettere delle idee, ma contribuisca sempre più a educare ragazzi e adulti alla fede e alla carità, nello sforzo di far propri, con la grazia divina, i pensieri e i sentimenti di Cristo, di imitarlo nelle scelte pratiche.
La famiglia, in cui s'è impegnata la diocesi nelle scelte prioritarie, sia tenuta ben presente quando vengono trattati i temi della povertà, della libertà e della fraternità. Soprattutto si cerchi di andare innanzi nella via intrapresa, aiutando la famiglia a prendere coscienza del ruolo attivo che le incombe, secondo le indicazioni dei vescovi italiani, di «centro unificatore dell'azione pastorale» (79), in ordine a tutti i problemi che esigono il suo intervento animato dallo spirito evangelico.
Sembra che la famiglia cristiana, nella quale l'amore è santificato e potenziato dalla grazia del sacramento, sia strumento particolarmente idoneo a promuovere quell'azione di carità fraterna, nell'aiuto spirituale e materiale, nel servizio umile e generoso, che rientra essenzialmente nella missione della Chiesa, «comunità di fede, di speranza e di carità» (80), assemblea dei discepoli di Cristo il cui segno di riconoscimento è l'amore vicendevole (81).
Nella luce di Maria
33. Chiudo questa lettera nella festa dell'Immacolata Concezione di Maria, in un breve intervallo tra la visita pastorale terminata stamane nella parrocchia di Maria Madre della Chiesa e quella, che inizierò stasera, nella parrocchia di Maria Madre di Misericordia. Ho sott'occhio una predica di S. Massimo, piuttosto severa (è intitolata nei manoscritti Increpatio ad plebem, come dire, un'intemerata rivolta alla comunità); ma termina con un tono di dolcezza non molto familiare al predicatore. Parlando di Davide che danza davanti all'arca dell'alleanza, ama vedere in questa una figura di Maria. L'arca, egli dice, racchiudeva la Legge (le tavole dei comandamenti), Maria portava in sé l'Evangelo; dall'arca si sprigionava la voce di Dio, Maria recava in sé il Verbo, la Parola vera fatta carne; l'arca risplendeva d'oro, dentro e fuori, ornamento terreno, Maria rifulgeva dentro e fuori dello splendore della verginità, ornamento celeste (82).
Volgiamoci con venerazione e con fiducia filiale alla Vergine Immacolata, «redenta in modo sublime in vista dei meriti del Figlio suo e a Lui unita da uno stretto e indissolubile vincolo... singolare membro della Chiesa e sua figura ed eccellentissimo modello nella fede e nella carità... madre di Cristo e madre degli uomini, specialmente dei fedeli» (83). Essa, «adornata fin dal primo istante della sua concezione degli splendori di una santità del tutto singolare» (84), voglia prendersi cura, con la sua materna carità, «dei fratelli del Figlio suo ancora peregrinanti e posti in mezzo a pericoli e affanni, fino a che non siano condotti nella patria beata» (85). Cristo è nato da Maria «per nascere e crescere anche nei cuori dei fedeli per mezzo della Chiesa» (86). Preghiamo e lavoriamo, fratelli carissimi, affinché per l'intercessione di Maria, il Natale imminente Segni la nascita di Cristo in tutti noi, affinché Egli cresca nella nostra Chiesa, alimentando in noi lo spirito di povertà, di libertà, di fraternità, e cosi tutti crescano «nella grazia e nella conoscenza del Signore e Salvatore nostro'Gesù Cristo» (87).
Questo è l'augurio che rivolgo per il Santo Natale e per l'Anno Nuovo che ci attende.
Torino, Festa dell'Immacolata Concezione 1971
* Michele card. Pellegrino, arcivescovo
Note
1 Octogesima adveniens, n. 4.
2 «Rivista Diocesana Torinese », n. 11, novembre 1971, pp. 377-384.
3 Lumen gentium, n. 23.
4 Cf. Gv. 17.
5 Serm. CXXIX.
6 Cf. Lumen gentium, n. 21.
7 S. Agostino, Confessioni, IX, 37.
8 Dal Comune della Dedicazione della chiesa, preci del Vespro.
9 Gal. l,10.
9bis Lc. 18,8.
10 Gaudium et spes, n. 64.
11 Ibid., n. 69.
12 Populorum progressio, n. 23.
13 Cf. Gaudium et spes, n. 60.
14 1 Tim. 6,6-8.
15 Serm. XVII, 2.
16 Cf. 2 Cor 8,9.
17 Lumen gentium, n. 8.
18 Cf. 2 Cor 8,13-15.
19 Lumen gentium, n. 55.
19bis Fil. 2,7-8.
20 Cf. Gaudium et spes, n. 63; Populorum progressio, fin. 9,76.
21 Octogesima adveniens, n. 15.
22 Ibid., n. 50.
23 Cf. Mt. 3,4.
24 Cf. Mt. 11,18-19; Lc. 5,33-35.
25 Lumen gentium, n. 8.
26 Cf. 1 Tim. 6,17-19.
27 Lc. 4,18.
28 Octogesima adveniens, n. 23.
29 B. Sorge s. i., Vangelo e «scelta di classe», in «Civiltà Cattolica», 20-11-1971, p. 324 s.
30 Ibid. p. 328.
31 De opere monachorum, 37.
32 Serm. XVII, 1.
33 Gaudium et spes, n. 67.
34 Così nel documento su L'evangelizzazione dei lavoratori in Piemonte elaborato nel Convegno di Pianezza del 25-27 giugno 1971. (...).
35 Ibid., p. 12 s.
36 Gaudium et spes, n. 40.
37 L'evangelizzazione dei lavoratori in Piemonte, cit., p. 14.
38 Vangelo, Politica e Socialismi, «Maestri della fede», LDC, n. 43, pp. 13-14.
39 S. Giovanni Crisostomo, Ricchezza e povertà, Roma 1947, p. 235.
40 Sorge, art. cit., p. 328 s.
41 Gaudium et spes, n. 64.
42 Populorum progressio, n. 26.
43 Ad gentes, n. 5.
44 Deut. 30,15.
45 Rom. 6,15-19.
46 Gal. 4,1-7.
47 Messaggio ecumenico alle comunità cristiane di Francia, cit. da A. Coste, in «Nouvelle Revue Théologique», oct. 1971, p. 862.
48 Rom. 6,23; 1 Tess. 1,9; 1 Pt. 2,16.
49 Rom. 1,1.
50 Gaudium et spes, n. 67.
51 Ibid., n. 63.
52 Ibid., n. 68.
53 Ibid., n. 68.
54 Cf. Rom. 13,1 ss.
55 Lumen gentium, n. 32.
56 Ibid., n. 18.
57 J. H. Nicolas, in «Nouvelle Revue Théologique», oct. 1971, p. 835.
58 Cf. Lumen gentium, nn. 18, 24, 27.
59 Lumen gentium, n. 37.
60 Enciclica Ecclesiam suam, n. 66.
61 Gaudium et spes, n. 62.
62 Rom. 6,12-19.
63 Cf. 2 Pt. 2,19.
64 Gal. 5,13.
64bis Gv. 10,17-18.
65 Ibid.
66 Lumen gentium, n. 28.
67 Christus Dominus, n. 11.
68 S. Giacomo 4,1.
69 Gaudium et spes, n. 4.
70 Pag. 425s
71 «Rivista Diocesana Torinese», n. 4-1970, p. 177 s.
72 1 Pt. 1,3.
73 Rom. 8,29.
74 1 Cor 11,27 ss.
75 Octogesima adveniens, n. 23.
76 Populorum progressio, n. 30.
77 V. I religiosi e le religiose nella pastorale diocesana, in «Rivista Diocesana Torinese», n. 9, sett. 1971, pp. 289-316 e in «Maestri della fede», LDC, n. 45.
78 V. «Rivista Diocesana Torinese», n. 7-8, luglio-agosto 1970, pp. 309-317.
79 Matrimonio e famiglia oggi in Italia, n. 16.
80 Lumen gentium, n. 8.
81 Gv. 13,35.
82 Serm. XLII, 5.
83 Lumen gentium, nn. 53-54.
84 Ibid., n. 56.
85 Ibid., n. 62.
86 Ibid., n. 65.
87 2 Pt. 3,18.

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